Gli studenti
PERSONE CHE PARLANO NELLA COMEDIA
[La scena è in Ferrara.] PROLOGO DI GABRIELE ARIOSTO Io son mandato a recitare il prologo
D'una comedia detta La Scolastica:
Così volse l'Auttor nomar la favola
Apparecchiata per mostrarsi in publico,
Per due scolar ch'in essa si contengono;
Che non tanto occupati nelle lettere
Eran, ch'in parte non s'adoperassero,
Come pur s'usa, in fatti delle giovane.
Dico ch'io son mandato a far il prologo
Da chi si ha tolto in compiacervi studio:
Nel qual non ho a tener lo stil medesimo
C'hanno tenuto questi nuovi comici,
E' quai non hanno fatto a lor comedie
Argomento, o risposto alle calunnie
Che li sian date da qualche lor emulo,
Come fe' Plauto e come fe' Terenzio;
Ma si son posti a scalcheggiar le femine
A dritto et a roverso, pur toccandole
Quanto posson nel vivo, et in quel proprio
Che non è bel da scriver. Né comprendono
Come l'impresa sia di poca gloria,
Che si sa ben com'elle sono facili
Da superar, ch'adietro si roversciano
Per poca spinta e non senza pericolo;
Che, se ben non si rompon spalla o gombito,
Avien per la caduta che si gonfiano
Spesso sì forte, che par un miracolo.
Adunque, invece d'argomento scrivere,
Risponder a calunnie e donne offendere,
Farà il prologo nostro un altro officio.
Io dico che poc'anzi il vostro comico
Che rendess'alla terra il corpo, e l'anima
All'eterno Motor, una comedia
Avea principiata, e preparavasi,
Com'avea fatto l'altre, trarla a l'ultimo:
Però ch'avea sempre intento l'animo
A farsi grata la mente del Prencipe,
Di forastieri, cittadini e nobili,
Che di sue fizion tutti godeano,
E più volte n'avean goduto in publico
Et in privato, tal ch'ancor sen laudano
Esso dunque mancato, mancò l'esito
Alla favola, non già il desiderio
A chi n'aveva veduto il principio.
Di qui nacque che molti amici intrinseci
Del mancato Poeta si voltorono
A l'un di tre fratelli, che superstiti
Gli restaron, pregandolo e strignendolo
Che volesse dar fine a questa favola.
Et ad uno argomento tutti andavano:
Ch'era a lor stato un precettor medesimo,
E ch'ambi avean seguiti i stessi studii,
E che il tempo non meno a l'un propizio
Era stato ch'all'altro, perché varia
Non molto era l'età. Questo allegavano,
Ma cantavano al sordo. Conoscevasi
E d'ingegno e di forze assai più debole
Che non bisogna a simil essercizio.
Altro ci vuol ch'aver visto grammatica
Et apparati gli accenti e le sillabe,
Studiato la Poetica d'Orazio
E divorati quanti libri stampansi!
È bisogno che 'l ciel per quel s'adoperi
Ch'abbi da scriver versi e ornare i pulpiti
Di bei suggetti. Et oltre ancor avvidesi
Come difficil fusse et impossibile
Indovinar ch'abbia voluto fingere
primo Auttor de l'opra, per concludere
Il cominciato oggetto, e persuadesi
Che più facil seria farn'una d'integro.
Altre ragion ancora l'avvertivano
A non ridursi sotto il contubernio
Delli poeti, quando par che siano
ln questa nostra età com'un ludibrio.
Non basta che sen passin senza premio
Le lor fatiche e lor longhe vigilie,
Ché li sono attaccate mille infamie.
Dicon che li poeti sono increduli
Delle cose divine, perché parlano
Talor di Giove e talora di Venere.
Ma tai calunniatori poco pescano
Al fondo. Ora non vo' su tal materia
Entrar più adentro, né far il filosofo,
Quando a pena son atto a dir un prologo.
Dicon piacerli arar col bu' e con l'asino:
Io non intendo ben questo proverbio,
Ma non è mal che d'ogni cosa facciasi,
Quando bisogna. A torto gli condannano
Che qual sansuga il sangue vivo cavano
A chi s'appiglian, che suoi versi ascoltino;
Ma quai son quei che ne' suoi fatti propii,
Ove intervien la gloria, non si perdino?
Sonogli date ancor altre calunnie,
E pur a torto, in che non voglio estendermi.
Restano adunque satisfatti gli animi
Delli prenominati che voleano
Che egli giongesse il fin alla comedia.
Ma doppo, molti giorni non passorono,
Ch'ebbe notizia come ancora il Prencipe
Desiderava che tirata all'ultimo
Pur l'opra fusse; e non gi perché intendere
Gli lo facesse, perché un buon giudizio
Potea comprender, come sopra ho dettovi,
Ch'egli non era a questo fatto idoneo
Dunque ogni studio questo di cui parlovi
Pose in far cosa grata a sua Eccellenzia;
E non sapendo a ch'altri meglio volgersi,
Con umil prieghi e lacrime delibera
Tentar se del fratello può trar l'anima
Alle parte superne, acciò che gli esplichi
Il fine risoluto della favola.
A lui adunque si volge, e di ciò pregalo,
E la mente del Prencipe fa intenderli,
Col ricordarli il longo e grato ospizio
Avuto in la sua corte, con le grazie
Che benigne gli ha fatte senza novero.
Tre volte e quattro avea le sollecite
Preci iterate, quando apparve in sonnio
Il fratel al fratello, in forma e in abito
Che s'era dimostrato sul proscenio
Nostro più volte a recitar principii,
E qualche volta a sostenere il carico
Della comedia e farli servar l'ordine
E disse: — Frate, i tuoi frequenti stimoli
Ma più la reverenzia del mio Prencipe,
M'ha tratto a dirti il fin della comedia.
Bisogna che tu intenda la memoria
Sì ben, che sia bastante recettacolo
Al molto ch'ancor resta per concludere
Mancav'a farsi giorno ancor buon spazio,
Quando egli cominciò dal loco proprio
Ove era monda l'opra, e con bastevole
Pronunzia la ridusse in fino a l'ultimo,
Quando si dice: — O spettatori andatene
In pace. — E ciò finito, in pace andossene,
E chi ascoltato avea si levò sùbito;
E già veggendo il sol i raggi porgere,
Tal che luce potea dare allo scrivere,
Non si fidando ben della memoria,
Non si volse levar di mano il calamo
Che scrisse il compimento della favola,
Come gli avea dettato la santa anima.
Ascoltarete adunque La Scolastica,
Fatta dal vostro poeta tutta integra:
E quando vi paresse alquanto vario
Lo stil aggiunto, non vi paia stranio;
Ché non son però i morti a' vivi simili.
Diranvi l'argomento, come sogliono
Dirvi, quei primi che verranno in pulpito.
Quei stiano attenti, a' quali le comedie
Piaccion; a cui non piacciano, si partino;
Over, mirando questi volti lucidi
Di tante belle donne, stiano taciti.
PROLOGO DI VIRGINIO ARIOSTO Vengo a voi solo per farvi connoscere
nome dell'Auttor di questa fabula,
Che L'Imperfetta con ragion si nomina,
Perciò ch'ebbe principio, dal medesimo
Auttore che ci diede La Cassaria,
La Lena, Il Negromante e Li Suppositi,
Le quai comedie esser note vi debbono.
Ora questa, così imperfetta avendola
L'Auttor lasciata con gli altri ben mobili
Al figliuolo, da lui come carissima
Sorella fu accettata; indi fece opera
Di farle far un fine che al principio
Fosse corrispondente; ma successegli
Diversamente dal suo desiderio,
In modo tal che gli fu necessario
Pigliar la penna e fars'anch'egli comico.
E così, mentre ch'egli di amorevole
Cerca d'aver il nome, qual è l'animo
Suo, egli è bene come certissimo
Di averlo d'arrogante e temerario,
Ch'ardisca di por man ne la comedia
Dell'Ariosto, ch'è stat'al mondo unico
A' tempi nostri. Oh come egli è dificile
A potersi salvar dalle calumnie!
Ma per lui ora mi piace rispondere,
E dirvi che se ben sappiàn che debole
È il suo sapper, a paragone massima–
mente di un tant'Auttor e di un tal spirito
Pur, perché alcuna volta vediàn mettere
Gamba di legno o man di ferro agli uomini,
Le quali, ancor che sian tanto disimili,
Parmi non sol che non acquistin biasimo
Ai facitori, ma ben laude e gloria,
Come quelle che rendino 'l corpo abile
A molte cose a quai senz'esse inutile
Seria del tutto: adunque la causa eccovi
Che l'indusse a finir questa comedia.
Or parmi esser qui molti che vorrebbono
Sapere dove insieme si congiunghino
Le parti dell'Auttor primo e dell'ultimo.
Ve lo direi volentieri, ma impostomi
Ha questo nuovo Auttor ch'io stia tacito,
Per esser qui persone di giudizio
Grande e d'ingegno, a' quai darei da ridere
S'io gli dicessi quello che chiarissimo
Da sé si mostra; oltre che dir potrebbono:
Vedi quant'esser deve l'ignoranzia
Di costui, come sciocco, che si reputa
Che da noi stessi non siàn per discernece
Il ner dal bianco. — E perché il ver diriano,
Egli vi priega, e vel dimanda in grazia,
Che scusar lo vogliate, promettendovi
Ch'avrete gran piacer di questa fabula,
Né recitata mai né molto simile
All'antiche di Plauto o di Terenzio.
Siategli dunque grati e favorevoli,
Stando ad udire il tutto con silenzio.
ATTO PRIMOSCENA IBonifazio vecchio, Claudio scolare BONIFAZIO:
M'incresce che vogliate, messer Claudio,
Così partirvi: non perché mi manchino
Altri scolari a ch'io possa le camare
Mie locar, ché n'ho molti che le vogliono;
Ma perch'in questi pochi giorni postovi
Avevo amor, ché mi parea che proprio
Voi mi foste figliuolo.
CLAUDIO:
Io vi ringrazio
Di cotesto buon animo, e in perpetuo
Ve n'ho d'aver, dovunque io sia, grand'obligo
E veramente non minor molestia
Sento io di lasciar voi che voi me; e abbiatelo
Per certo che la dolce et amorevole
Natura vostra m'ha stretto d'un vincolo
Con voi sì forte di benevolenzia
Che, fin ch'io viva, nol credo disciogliere.
BONIFAZIO:
Onde nasce cotesta così sùbita
Volontà di partirvi?
CLAUDIO:
Da la solita
Disgrazia mia ch'ovunque vo mi séguita;
E perché non crediate, Bonifazio,
Ch'a tal partenza leggerezza d'animo
Mi muova, o ch'io la faccia volontaria,
Io vi dirò quel che però a molti uomini
Io non direi; ma non debbo nascondermi
A voi ch'in luogo di padre vi reputo.
Or ascoltate.
BONIFAZIO:
Io v'ascolto.
CLAUDIO:
A principio
Che da mio padre fui mandato in Studio
Da Verona, la qual è la mia patria,
A Pavia andai, e con un messer Lazzaro,
Che vi leggea la sera l'Ordinaria,
Mi méssi in casa. Quasi in un medesimo
Tempo vi venne a star messer Eurialo,
Figliuol di questo vicin vostro Bartolo,
Che, com'io, pur quell'anno entrava in Studio.
Quivi s'incominciò quell'amicizia,
Quella fraternità fra noi che dettavi
Ho più volte.
BONIFAZIO:
Che forse fu potissima
Cagion di farvi venir qui.
CLAUDIO:
Consentovi
Che ne fu in parte, ma non già potissima.
Udite pur, che ben vi farò intendere
Il tutto. Avea il dottor una bellissima
Figliuola, et ha, nominata Flamminia,
La qual non vidi prima, ch'ardentissima–
mente di lei mi accesi, et ella il simile
Fece di me. Sol non venimmo all'ultime
Conclusion, ché 'l padre con gran studio,
E la madre, dì e notte la guardavono;
E mi giovava poco che la balia
Sua m'aiutasse e m'aiutasse Eurialo
Ancora, ma con qualche più modestia
E più segretamente. E quest'ufficio
Parte facea mosso da l'amicizia,
Parte perché da me n'avea buon cambio:
Ché col mio mezzo si godea una giovane,
Bella e molto gentile, ancor che d'umile:
Grado fosse, la qual stava ai servizii
Quivi d'una Contessa, a cui domestico
Er'io molto et amico, e con cui simile–
mente stava una donna de la patria
Mia, che familiar m'era et intrinseca,
E ne potevo disporre; e disposine
In guisa, che le feci far tal opera
Ch'in pochi giorni al suo disegno Eurialo
Venne. Or, tornando al caso mio, brevissimo
Fu il mio piacer: non poté andar si tacita
La cosa che la madre ad avvedersene
Non comminciasse, et indi messer Lazzaro;
Il qual, come prudente, alcun còlera
Di ciò non dimostrando, trovò idonea
Causa, e diversa da questa, di spingermi
Di casa sua con onesta licenzia.
Io, pur seguendo l'impresa, e avolgendomi
Per quella strada con troppa frequenzia,
E molte volte sul canton fermandomi
E facendo atti e cenni che dar carico
A tutta quella famiglia potevano,
Feci sì che 'l dottor si pose in animo
Di far ch'io non stessi in Pavia, e successegli:
Ch'indi a pochi di occorse ch'in le pratiche
Del Rettor, una notte, un omicidio
Fu fatto. Io mi trovai quella nott'essere
Là presso, e al rumor corsi. Il dottor sùbito
Mi fece dar la colpa, indi procedere
Contra; e in un tratto fui per contumacia
Condennato, e fu forza di fuggirmene,
E de' studenti, amici e gentiluomini
Lasciar le compagnie. Ma più increscevole
Mi fu perder la vista di Flamminia;
E se non fosse stato che con lettere
Spesso novella me n'ha dato Eurialo,
Non so come sì longa resistenzia
Potuto avessi far al desiderio
Che nott'e dì mi rode, afflige e macera.
BONIFAZIO:
Se l'amavate tanto, domandarglila
Per moglie dovevate. Forse datavi
L'avrebbe; e che nol fêste maravigliomi.
CLAUDIO:
Né di domandarglila né di prenderla
Avrei avuto ardir, senza licenzia
Di mio patre che vivea allora; e dubbio
Non è che ciò mio patre consentitomi
Mai non avria: del qual sapevo l'animo
Esser che prima io finissi 'l mio studio
E ch'io mi addottorassi, indi in la patria
Darmi, a suo modo, una moglie ricchissima.
BONIFAZIO:
Ora che senza patre sète libero,
Perché coi vostri amici non fate opera
Ch'egli pur ve la dia?
CLAUDIO:
Scrissi ad Eurialo,
A' di passati, che ne fêsse pratica;
E la risposta sua mi fe' da Padova
Levare incontinente e qui venirmene,
Perch'egli mi avisò che messer Lazzaro,
Poi ch'a Pavia levato era 'l salario
Alli dottor, né più si facea Studio
Per le guerre che più ogni di augumentano,
Avea tramato, pel mezzo di Bartolo,
Suo padre d'esser condotto qui a leggere;
E che l'avea ottenuto, et era in ordine
Con tutta la famiglia per venirsene;
E che l'abitazion sua doveva essere.
Qui ne la casa loro; e confortavami
Ch'anco io mi ci trovassi, che 'n presenzia
Si fan meglio le cose che con lettere.
Per questa causa ero venuto, e postomi
In casa vostra per potere...
BONIFAZIO:
Intendovi.
CLAUDIO:
...Meglio fruir la vista di Flamminia
BONIFAZIO:
Né potevate aver luogo più commodo.
CLAUDIO:
Poi ch'io son qui, mi par che più non séguiti
Che s'abbia a far in questa terra Studio.
Poi giunse, come voi sapete, Eurialo
L'altr'ieri, et apportò che messer Lazzaro
È condotto, e che debb'andar a Padova,
E che la via del Po che va a Vinegia
Farà, senz'altrimenti qui venirsene.
BONIFAZIO:
Oh, quest'è dunque la cagion che Bartolo,
Che molti giorni era stato aspettandolo,
Questa matina si è partito, e dicono
Li suoi di casa che va sino a Napoli.
CLAUDIO:
Potete or, senza ch'io 'l dica, comprendere
Che m'induca, mi sforzi e mi necessiti
A partir da Ferrara e gire a Padova.
Ma, per non perder tempo, anderò a intendere
Qua, dove i carrattieri si riducono,
S'a Francolino è burchio per Vinegia
Che parta oggi o domane; ch'io voglio essere,
S'io potrò, prima là di messer Lazzaro.
BONIFAZIO:
Gli è buon ch'io torni in casa e faccia cuocere
Il desinar, sì che possa ir a tavola
Come ritorni. Ecco il figliuol di Bartolo
Che vien in qua; vuo' intendere se Bartolo
È partito. Buon dì, messer Eurialo.
SCENA IIEurialo, Bonifazio EURIALO:
Dio ve ne renda mille, Bonifazio.
BONIFAZIO:
Èssi partito?
EURIALO:
Or ora. Non debb'essere
Ancor al Ponte
BONIFAZIO:
Com'ha egli indugiatosi
Tanto, ch'omai credea fosse a San Prospero?
EURIALO:
Gli avea promesso di prestar, quell'asino
Di Giannuol, un caval ch'iersera, udendolo,
Era Pegaso, e poi gli volea mettere
Sotto una mula che sta come un trespolo
In tre piedi, viziosa più che il diavolo.
BONIFAZIO:
Com'ha egli fatto?
EURIALO:
Siamo iti a un stallatico:
Ch'è andando verso il Ponte: è, credo, l'ultimo;
E quivi ha avuto un ronzino c'ha un ambio
Miglior del mondo, ma sì mal in ordine
Che più d'un'ora siàn stati acconciandoli
Cinghie, staffili, pettoral e redine.
Al fin pur l'ho messo a cavallo e vassene,
Che Dio 'l conduca
BONIFAZIO:
E andarà solo
EURIALO:
Aspettalo
A Bologna un famiglio ch'al servizio
Nostro stette altre volte, e apparecchiatogli
Ha dui cavalli da vettura, ch'ottimi
Son da viaggio, secondo il suo scrivere.
Giunto in Bologna, fa pensier fermarvisi
Tre giorni o quattro, tanto che vi capiti
Alcuna compagnia che vada a Napoli.
BONIFAZIO:
E che buone facende così il menano?
EURIALO:
Già molti anni v'ha voto. Messer Claudio
È in casa?
BONIFAZIO:
Non.
EURIALO:
Com'egli torna, ditegli
Ch'io vuo' che mangi meco alla domestica
Questa matina.
BONIFAZIO:
Gliel dirò. Voletemi
Commandar altro?
EURIALO:
Non altro.
BONIFAZIO:
(Dovendogli
Dar costui disinar, meglio è non cuocere
Quelle starne. Io vo a dir che non si mettano
Più al fuoco.)
EURIALO:
Colui là mi par Accursio.
È egli o no? Senza dubbio egli è Accursio,
Il mio famiglio che dietro restatomi
Era a Pavia, per far miei, libri mettere
E miei forzieri in nave. Alcuna lettera
Arrecata m'avrà da la mia Ippolita.
O vita mia, quanto, duro e difficile
M'è il non poter vederti! Fia impossibile
Che senza la tua vista io possa vivere!
SCENA IIIEurialo, Accursio EURIALO:
Quando giungesti?
ACCURSIO:
Io giung'ora.
EURIALO:
Hai tu lettere?
ACCURSIO:
N'ho così poche che so a pena leggere,
Avenga che con voi sia stato in Studio.
EURIALO:
Non motteggiar. M'hai tu portate lettere
De la mia vita?
ACCURSIO:
Messerno.
EURIALO:
Farestime
Ben maledir e rinegar e rompere
La pazïenzia. Ma tu ridi? Dammile,
Non mi voler tormentar, ché credibile
Non è che stato tu fossi tant'asino
Che senza farle motto in qua venutone
Fossi, né t'avrebb'ella, senza scrivermi,
Lasciato mai così venire.
ACCURSIO:
Fecile
Motto purtroppo, e pur senza sue lettere
Io son venuto
EURIALO:
Ohimè! com'è possibile?
Io vo' ben dir... Ma tu pur ridi...
ACCURSIO:
Or ridere
Non posso e non aver però sue lettere?
Ma s'io avessi di lei meglio che lettere?
EURIALO:
E che?
ACCURSIO:
Ve lo dirò. Ma prima ditemi
Voi quando il vecchio sia per gire a Napoli.
EURIALO:
Si part'or ora per andarvi, et essere
Non può lontan ancor un miglio.
ACCURSIO:
Ditemi
II vero.
EURIALO:
Io 'l dico: si è partito.
ACCURSIO:
Diagli
Dio buon viaggio. Ora, messer Eurialo,
Potete dir che siate felicissimo
Per la sua andata.
EURIALO:
E come?
ACCURSIO:
Era pericolo
Se non si partiv'oggi ch'ove gaudio
Vi avrò portato, portato molestia
V'avessi e briga:
EURIALO:
C'hai portato?
ACCURSIO:
Vòlsivi
Dir ch'avevo condotto, ché gravatomi
Troppo avrebbon le spalle.
EURIALO:
Or su, espediscimi
ACCURSIO:
S'io vi dicessi che venuta Ippolita
Fosse a Ferrara, vi parria miracolo?
EURIALO:
Come venuta?
ACCURSIO:
In nave.
EURIALO:
La mia Ippolita
È in Ferrara?
ACCURSIO:
È in Ferrara.
EURIALO:
Ove?
ACCURSIO:
Lasciatala
Ho in San Polo e m'aspetta fin che a rendere
Le vo risposta.
EURIALO:
Non ti posso credere,
S'io non la veggo.
ACCURSIO:
Venite, e vedretela.
EURIALO:
Com'è così venuta?
ACCURSIO:
In nave, dicovi.
EURIALO:
Non ti domando cotesto, domandoti
Per qual via e come di casa partitasi
Sia de la sua patrona.
ACCURSIO
Per la solita
Via ch'usan gli altri è venuta; e debb'essere
Uscita per la porta.
EURIALO:
Tu mi strazii
E mi dileggi, gaglioffo!
ACCURSIO:
Anzi dicovi
La verità, né mi volete credere
EURIALO:
Ell'è venuta certo?
ACCURSIO:
Certo.
EURIALO:
O anima
Mia cara, o vita mia! Mi sento struggere,
Mi sento il cor liquefar di letizia.
Ma dimmi un poco la cosa per ordine.
ACCURSIO:
Ve la dirò, se m'ascoltate.
EURIALO:
Ascoltoti.
ACCURSIO:
Io ritrovai la Veronese, e dissile
Ch'io m'ero per partir il marte prossimo
(Questo fu un venerdì), sì che se Ippolita
Volea scriver, scrivesse. Ella, con lagrime
Sugli occhi e tutta infiammata di còlera,
Si scusò non poter far quest'ufficio,
Perché da la Contessa quel di proprio
Era stata di casa, con suo obbrobrio,
Cacciata; e questo perché alcun malevoli
Le avean scoperto l'amor e 'l commercio
Che con voi per suo mezzo tenea Ippolita;
E che rumor e pugni avea la giovane
Avuti, et era per averne in copia;
Ma pur per altra via le faria intendere
Quel che detto io le avea. Poi, la medesima
Sera, venne a trovarmi con dui piccioli
Forzieri e un sacco pien di masserizie,
E mi pregò ch'io gli facessi mettere
In nave con le vostre robe. Tolsigli,
Non pensando altro. L'altro dì, che sabato
Fu, senti' dir per la città ch'Ippolita
E che la Veronese fuggite erano
Da la Contessa e dove non sapevasi.
Io me ne posi, a dirvi 'l ver, fastidio,
Ancora ch'io pensassi ch'elle fossino
Venute a questa via; ma dei pericoli
Stavo in timor ch'incontrar lor potevano
Nel camin.
EURIALO:
Gli è per certo stato l'animo
Lor gagliardo.
ACCURSIO:
Anzi audace e temerario.
EURIALO:
Anzi pur grato, benigno, amorevole.
ACCURSIO:
Io feci por le robe in nave, e messimi
Alla via, e quando ci fermamo al dazio
Di Piacenza, trovai che m'aspettavono.
EURIALO:
Non è già 'l primo né 'l secondo indizio,
Ma si bene il maggior questo che datomi
Ha de l'amor che mi porta. Ma séguita.
ACCURSIO:
Quindi la feci tôrre in nave, et hovela
Condotta. Ma al cor sempre ho avuto un stimolo:
O che de la patrona sua venissemi
Alcun famiglio dietro, o che levatami
Tra via fosse altrimente, o che, trovandosi
Qui vostro patre, voi darle recapito
Non poteste, e ch'in luogo di letizia,
La sua venuta affanno avesse ad esservi.
EURIALO:
La sua venuta in ogni tempo, o fosseci
Mio patre o non ci fosse, non puote essermi
Se non gioconda; e senza fin ringraziola.
ACCURSIO:
Meglio m'è tornar dunque, e far che vengano.
EURIALO:
Dove?
ACCURSIO:
Qui in casa.
EURIALO:
Qui in casa? Non, domine
Non sai come Pistone è rincrescevole?
Diria ch'io comminciassi presto.
ACCURSIO:
Oh diavolo!
Mi maraviglio ben di voi! Voletevi
Lasciar a un sciagurato sottomettere?
Non sète omai più fanciullo. Mostrategli
Che voi volete esser padrone e fatelo,
Se vi vuol soprafar, parere un asino.
EURIALO:
Se 'l vecchio fosse sì lontan, che dubbio
Del suo tornar non avessi pel scrivere
Di costui, la farei secondo l'animo
Tuo; ma sii certo ch'a un'ora medesima,
A un tempo, a un punto ch'elle in casa entrassino,
Manderia dietro al vecchio, e querimonia
Ne faria tal che lo faria rivolgere.
Meglio è che troviàn lor oggi una camera
In compagnia di qualche buona femina.
ACCURSIO:
Bona? e dov'è?
EURIALO:
Che ne so io? Vòlsiti
Dir de le manco rie che si ritrovano.
ACCURSIO:
In questo mezzo vi par ch'elle debbiano
Star in chiesa digiune, o si riducano
Coi frati alla piatanza in reffettorio?
Ma facciàn altrimente
EURIALO:
Come?
ACCURSIO:
Dicasi
In casa ch'elle son di messer Lazzaro
La moglie e la figliuola, che doveano
Venir, e scrisson poi che non venivano
Pin; dichiàn or che di novo mutatesi
Sono, e che pur Ferrara veder vogliono,
Prima che passin per andar a Padova.
EURIALO:
Tu parli ben; ma come verisimile
Potrà parer che senza messer Lazzaro
Siano venute; e che seco non abbino
Almeno una fantesca?
ACCURSIO:
Messer Lazzaro
Con la famiglia e robe diremo essere
Ito per l'altro Po che va a Vinegia,
Ché, com'uom c'ha rispetto et avertenzia,
Non ci vuol dar molta spesa. Lasciatemi
Pur governar questa cosa.
EURIALO:
Governala
Come ti par.
ACCURSIO:
Datele voi principio.
Andate a ritrovar Pistone, e ditegli
Che giunta è la moglier di messer Lazzaro
Con la figliuola a San Polo, e che vengono;
E ch'io son corso inanzi a nunziarvelo,
E ch'io lor torno incontra. Et aspettatemi
In casa, e fate intanto che le camere
Si spazzino, e li letti si rassettino,
E le spalliere ai luoghi lor s'attacchino.
E voi mostrate gran solecitudine,
Come se veramente vi venissero
Persone a casa di rispetto, e siavi
Più ch'altro a core ch'abbian buona tavola.
EURIALO:
Tu che farai?
ACCURSIO:
C'ho a far, se non tornarmene
Là dove l'ho lasciate, e dir che vengano?
EURIALO:
Or va', ma prima avertisci et informale.
ACCURSIO:
Le avertirò, ma d'informarle ufficio
Vostro sarà.
EURIALO:
Non cianciare. Instruiscele
Di ciò ch'elle hanno a dire et a rispondere.
ACCURSIO:
Le farò dotte in modo che ben credere
Si potrà ch'allevate sian in Studio.
Ma udite: quasi m'era di memoria
Uscito che la Veronese, avendole
Io detto a caso che qui è messer Claudio,
M'ha imposto ch'io vi preghi e che di grazia
Domandi che facciate che non sappia
Che siano in questa terra ella né Ippolita.
EURIALO:
Perché?
ACCURSIO:
Mi penso che sia perché, avendola
Posta con la Contessa messer Claudio,
La si vergogni, e le paia che carico
A lui ritorni questo, che fuggitasi
La se ne sia, e sviata abbia Ippolita.
Et appresso mi ha detto che, volendole
La Contessa mandar dietro, non dubita
Mandarà a Ferrara; e qui trovandosi
Messer Claudio, farà il messo ricapito
A lui, sì com'ad uomo ch'amicissimo
Sia de la sua padrona e molto intrinseco.
EURIALO:
Non sa la Veronese, non sa Ippolita
Che, se de la Contessa è messer Claudio,
Ch'egli è più mio, né mai saria per movere
Lingua di cosa ove credesse offendermi?
ACCURSIO:
Ma non sapete voi che messer Claudio
Meglio dirà che non ci son, credendosi
Di dir la verità, che connoscendosi
Bugiardo? E meglio le parole vengono
Che si parton dal cor, che quelle ch'escono
Sol da la bocca, alla intenzion contrarie.
EURIALO:
Tu pensi bene. Or dille che non dubiti,
Ché, poi che non le par, non son per dirglilo.
ATTO SECONDOSCENA IBonifazio, Pistone famiglio BONIFAZIO:
Meglio è ch'io vada in Piazza, e ch'io faccia opera
Col bidel che mi trovi alcuno giovene
Costumato e da bene, a chi le camere
Mie lochi; che, volendo messer Claudio,
Come dice, partir, vòte non restino.
PISTONE:
Vo' uscir di casa, né prima lasciarmici
Oggi trovar, che sian sonati i vesperi.
BONIFAZIO:
Ecco la feccia di quanti si trovano
Famigli negligenti, temerarii,
Cianciatori! Non so come potutolo
Abbia patir sì longamente Bartolo.
PISTONE:
Dovean mandar un messo inanzi, o scrivere,
E darne almen d'un mezzo giorno spazio.
Gli è un mese ch'io non sento altro che “vengono,
Non vengono”. Al fin pur venuto è il “vengono”,
Et è venuto, quando con più incommodo
Nostro ha potuto venire. Ora mangino
Di quel ch'è in casa, e faccian come possono,
Ch'io non so come proveder sì sùbito,
Né, sapendol, ci ho tempo; che m'importano
Pià le facende che 'l patron impostemi
Ha che l'apparecchiar credenze e tavole.
BONIFAZIO:
Che vuol dir quest'apparecchio
PISTONE:
Ci vengono
Forestier.
BONIFAZIO:
E chi son?
PISTONE:
Non posso dirlovi.
BONIFAZIO:
Perché?
PISTONE:
Perc'ha commesso in casa Eurialo
Che non si dica fuor.
BONIFAZIO:
Fati in qua, dimmelo
Dentro l'orecchia; ma non vòlse intendere
Di me.
PISTONE:
Nol so. Ha ben commesso in specie
Che non si dica a questo vostro giovine
Che vi sta in casa.
BONIFAZIO:
E perché?
PISTONE:
Voglio dirlovi
Pur com'egli è: di voi disse il medesimo,
Che non vi si dicesse.
BONIFAZIO:
È egli possibile?
PISTONE:
Gli è com'io dico. Ma a sua posta vogliolo
A voi dir ogni modo, che vi reputo
De' nostri; poi la cosa non veggo essere
Tanto importante ch'io la debba ascondere;
E gracchii quanto vuol. Son li medesimi
Che questi di aspettamo, e che poi scrissero
Che non volean più venir. Or ci giungono
Adosso alla sprovista, quando Bartolo
È partito.
BONIFAZIO:
E chi son? Pur messer Lazzaro,
Quel dottor da Pavia?
PISTONE:
Non messer Lazzaro,
Ma la moglier e la figliuola. Vogliono
Veder Ferrara. Montati a Fellonica
Son ne le navi del mercato, e vengono
Elle due, e con lor solo è il nostro Accursio,
Senza più.
BONIFAZIO:
E dove resta messer Lazzaro?
PISTONE:
Va giù per l'altro Po. Non ci vuol, dicono,
Dar tanta spesa.
BONIFAZIO:
Debbe esser che misero,
Se si va assottigliando in cose minime!
PISTONE:
Anzi pur grandi, sì che già m'increscono.
BONIFAZIO:
Staranci assai?
PISTONE:
Cinque o sei giorni. Aspettano
Un vecchio lor di casa, che debb'essere
Qui presto, il qual poi le conduca a Padova.
BONIFAZIO:
Perché non vuol che si sappia?
PISTONE:
Al giudicio
Mio, queste donne, perché qui si veggono
Senza serve e famigli, si vergognano
Ma voglio andar.
BONIFAZIO:
La via è spedita e libera.
PISTONE:
Ma, per Dio, questa cosa, Bonifazio,
Stia in voi.
BONIFAZIO:
Non dubitar, che secretario
Non potreste trovar di me più tacito.
(Quel ch'egli ha dett' a me, se cento vogliono
Saper, lo dirà a tutti, ma ponendovi
Patto però ch'ad altri nol redicano.
E di quel ch'egli afferma ch'abbia Eurialo
Commesso, che né a me né a messer Claudio
In specie se ne parli, si può credere
Che se ne menta. Ma quest'è 'l suo solito,
Di sempre riportar ciance e di spargere
Zizzanie e d'attaccar risse e discordie,
Col malanno che Dio gli dia. Ma debbono
Esser queste le donne che s'aspettano
Qui, che con lor veggio che viene Accursio.
Vuo' veder se però questa Flamminia.
È bella come la fa messer Claudio,
E s'egli ha avuto in amar buon giudicio.
SCENA IIVeronese vecchia, Ippolita, Accursio, Bonifazio VERONESE:
I gesti e i detti nostri si conformino
Con quel ch'abbiamo disegnato, Ippolita,
Sì che né questi altri famigli accorgersi,
Né queste serve c'hanno in casa, possano
Che noi non siamo quelle che 'l nostr'utile
Commun richiede che debbiamo fingersi
IPPOLITA:
Saprò ben fare io per me .
VERONESE:
Sì, se Eurialo
Non ci fosse.
ACCURSIO:
Anzi 'l farà meglio, essendoci
Egli.
VERONESE:
Di quel far non dico, ma dicole
Ch'avrà dificoltà a tenersi, essendoci
Lui, di non usar atto, o riguardandolo
Più del dover, o accennando e ridendoli
In viso, o motteggiandolo, che liquido
E chiaro faccia altrui che fra lor s'amino.
IPPOLITA:
Se ci sarà persona a cui sia debito
D'aver rispetto, io starò cheta et umile,
Con gli occhi bassi, che parrò una monaca:
ACCURSIO:
Ecco la casa là del nostro Eurialo.
IPPOLITA:
O cor mio caro, o vita mia! Difficile
Sarà potermi tener di non correre
Ad abbracciarlo.
VERONESE:
Vedi come, Accursio,
Mi è costei bene ubidïente!
IPPOLITA:
Affrettati,
Vecchia! Cotesto passo di testuggine
Allunga un poco. Vuoi che stiàn a giungere
A quella casa cento anni?
ACCURSIO:
È impossibile
Insomma ch'agli amanti legge mettere
Si possa. Ecco, siàn pur a casa. Entrateci.
IPPOLITA:
Entrate, madre.
VERONESE:
Va' là, ch'io ti séguito,
Figliuola.
ACCURSIO:
Non mi dispiace il principio.
SCENA IIIBonifazio BONIFAZIO:
È assai bella e, per Dio, c'ha gentil aria.
Ma che tardo io di cercar messer Claudio,
Tanto ch'io 'l trovi, sì ch'altro non l'occupi,
E gli dia prima di me quest'annuncio?
Ma dove 'l cercarò? Potria, dovendosi
Partir domane, o forse bene oggi, essere
Ito a pigliar dai dottori licenzia
E dai compagni, o a farsi far le polizze
De le sue robe in gabella. Più facile
E più sicur sarà star qui, e non perdere
Questa fatica. Non pò star... Ma eccolo,
Eccol, per Dio, gli è desso! Ora apparecchisi.
Di darmi 'l beveraggio, ch' io lo merito.
SCENA IVClaudio, Bonifazio CLAUDIO:
Non so se dica il ver, ma mal credibile
Mi par però che senza messer Lazzaro
Debban venir. Ma sia 'l vero che vengano;
Perc'ha così commesso in casa Eurialo,
A quanti ve ne son, che non mel dicano?
Se non vuol pur che gli altri fuor lo intendano
(Che la causa non so, né imaginarmela
Posso), non dovria almeno a me nasconderlo.
Ma sono appresso ove posso chiarirmene.
BONIFAZIO:
Che mi volete pagar, messer Claudio,
S'una novella vi do che gratissima
Vi fia?
CLAUDIO:
La so, ché 'l servitor di Bartolo
Che m'ha trovato su quel canto, dettala
M'ha.
BONIFAZIO:
Ve l'ha detta Piston?
CLAUDIO:
Piston dettami
L'ha.
BONIFAZIO:
Guata bestia! Mi prega di grazia
Ch'io non vel dica, e poi vien egli a dirvela!
CLAUDIO:
Così ha pregato me ancora che tacito
Io me ne stia, né con altri 'l comunichi.
Ma non gli credo!
BONIFAZIO:
Sopra me credetegli,
Perch'egli è vero; né sì poco giungere
Potevate più presto, che vedutele
Avreste entrar là dentro.
CLAUDIO:
Voi vedutele
Avete?
BONIFAZIO:
Con questi occhi.
CLAUDIO:
Raffermandomi
Voi d'averle vedute, posso crederlo.
Chi è con lor?
BONIFAZIO:
Nessun altr'ho vedutoci
Che figlia e madre.
CLAUDIO:
Com'è egli possibile
Che con loro una serva almen non abbino?
Ben è mutato in tutto messer Lazzaro
Di natura. Le mosche che volavano
In casa già in sospetto lo ponevano,
Né mai sarebb'uscito se Flamminia
Non avea prima chiusa ne la camera;
Ne portava la chiave, né fidavasi
De la moglier, e a pena di sé proprio.
Si che mi par sentir come un miracolo
Che senza la sua guardia ora lasciatala
Abbia venir qui, dove vecchi e giovani,
Tutti generalmente dati all'ozio,
Non hanno altro pensier né altro essercizio
Che tuttavia solicitar le femine,
Le qual, più qui ch'in altro luogo libere
E di dir e di far ciò ch'elle vogliono,
Le forastiere ai lor costumi avezzano,
Da non poter Lucrezia né Virginia,
Se ci venisson, servar pudicizia.
BONIFAZIO:
Ah, non dite cotesto, che grandissimo
Torto avete; Se bene hanno licenzia
Le donne nostre, non però si debbono
Né peggior né miglior de l'altre credere;
E s'in ciò accade colpa, perché agli uomini
Non si de' dar più tosto, ch 'el comportano?
Ma mi par che parliate più per còlera
Che per ragione; et io, che darvi annunzio
Di gaudio mi credea, veggio che datovi
L'ho di mestizia, e che vi spiace intendere
Ch'elle sian qui.
CLAUDIO:
Vi dirò, Bonifazio
La verità. Questo volerlo ascondere
A me ch'Eurial fa, mi guasta il stomaco.
BONIFAZIO:
Non date fede a quel poltron. Credibile
Non è ch'Eurialo avesse fatta simile
Commission, e quando anco pur fattala
Avesse, a mal effetto io non la interpreto.
Forse lo fa, ch'egli 'l primo vuol essere
Che ve ne dia la novella, o vuol farlavi
D'improviso veder.
CLAUDIO:
Il “forse” è debole
Fondamento. Le cose che si veggono
Si puon dir certe, le future in dubbio
Son sempre, che ponn'essere e non essere.
BONIFAZIO:
Volete voi ch'io lievi questo dubbio,
Se per ben o per mal costui nascondere
Cerca questa venuta?
CLAUDIO:
Lo desidero.
BONIFAZIO:
Gli vuo' porre una spia, che qual sia minima
Cosa non potrà far né dir, che sùbito
Non la intendiàn.
CLAUDIO:
Fatel, di grazia, e costimi
Quel che vuol.
BONIFAZIO:
Molto non vi vuo' far spendere;
Ma trovarete al fin ch'ell'è una favola.
Si vuol pigliar di voi giuoco, facendovi
Aver a un tempo maraviglia e gaudio
Quando la vederete. Ma in memoria
Mi torna che mi disse dianzi Eurialo
Ch'a disinar v'invita alla domestica
Con essolui, sì che, per Dio, comprendere
Potete ch'egli è a punto com'io giudico.
Ma ecco la sua fante: a chiamar credovi
Venga. S'aveate dianzi guasto il stomaco,
Costì mangiando potrete acconciarvelo.
SCENA VStanna fantesca, Bonifazio, Claudio STANNA:
Io cercarò, ma sempre suole in li ultimi
Giorni del Carnevale esser difficile
Trovar piccioni, perch'i gentiluomini,
Che tutti feste e conviti apparecchiano,
Dieci e dodici di prima gli inarrano.
BONIFAZIO:
Se la Stanna vorrà far quest'ufficio
D'esserci spia, sarà buona.
CLAUDIO:
Bonissima;
Pur ch'ella voglia.
BONIFAZIO:
Ella vorrà, vedretelo.
STANNA:
S'io non ne posso aver, torrò in quel cambio
Un pezzo di vitella, o anatre, o simile
Cosa; ma dirà prima a messer Claudio
Questo ch'io gli ho da dir.
BONIFAZIO:
Ecco, vi nomina.
Vedrete al fin ch'egli è com'io m'imagino.
STANNA:
Ma qui lo veggo a tempo. — Messer Claudio,
Mio patron, che v'avea per Bonifazio
Fatto invitar, vi manda a far intendere
Ch'oggi non può darvi mangiar, ché giuntegli
Son novelle importanti che lo sforzano
Andar in villa. Un'altra volta al debito
Sodisferà.
CLAUDIO:
Come gli piace.
STANNA:
Pregavi
Che voi gli perdoniate.
CLAUDIO:
Non accadono
Qui perdonanze. Egli dov'è?
STANNA:
Partitosi
È già un pezzo e va in villa.
BONIFAZIO:
Debb'io credere
Che sia così indiscreto, che venuteli
Essendo gentildonne a casa, vogliale
Lasciar sole?
STANNA:
Che gentildonne?
BONIFAZIO:
Avemole
(Nol negar) ben vedute, e siàn certissimi
Che non è Eurialo in villa. Anzi, se mossosi
Fosse per irvi, e sentisse che fossero
Venute, egli vorria, per tornar sùbito,
Volar, ché non parria bastassi a correre.
Et ha più che ragion, che quella giovene
È, per Dio, molto bella, e mostra all'aria
Esser non men gentil.
STANNA:
A fede, avetele
Vedute?
BONIFAZIO:
Ambe le vidi, quando vennero,
La madre e la figliuola. Accarezzatele
E fate lor onor, e per lor meriti,
E per rispetto poi di messer Lazzaro,
Al qual odo ch'Eurial ha immortal obligo.
STANNA:
Non mancamo far lor ciò ch'è possibile.
Gli è ver che son venute quando Bartolo
Non c'è, che tutti ne trova in disordine.
BONIFAZIO:
Non dir tutti, ch'io so, quando in disordine
Ben fossin gli altri, tu sei sempre in ordine.
STANNA:
Voi volete la baia.
BONIFAZIO:
Questo è 'l solito
De' vecchi: tôr, quando dar non la possono.
Ma lasciamo le ciance. Vien qui. Vònne tu
Far, Stanna, un piacer grande? E promettemoti
Tener segreta, et appresso guadagnati
Una saia con noi, ch'abbia le maniche
Di seta, che non fasti mai sì orrevole.
STANNA:
Ben bisogno n'avrei: pur senza premio
Son per farvi, ov'io possa, ogni servizio.
BONIFAZIO:
Voglio che, per mio amor e per tuo utile,
Usi, Stanna mia cara, diligenzia
Di chiarirti s'Eurialo in questa giovane
È inamorato. Facilmente accorgere
Te ne potrai.
STANNA:
Ch'accade a voi d'intenderlo?
BONIFAZIO:
Te lo dirò. Sappiàn che 'l patre darglila
Vorrebbe, et anco v'è inclinato Bartolo.
Ma, s'al parlar d'Eurialo avèn a credere,
Non par se ne contenti; e noi, per dirte la
Verità, mal gli crediamo. Tu studia
D'informarti del ver.
STANNA:
Senz'altro studio
So che non dice 'l vero, e son chiarissima
Ch'egli è come pensate. Insieme s'amano,
Et è fra lor altro che ciance.
CLAUDIO:
Ah misero!
Post'avrò il dito nel vespaio.
STANNA:
E dicovi
Più: che la matre istessa è consapevole
Di quest'amor. Ma, per Dio, Bonifazio,
Non se ne parli; non fate ch'Eurialo
Sappia ch'io l'abbia detto, ch'espressissima–
mente m'ha commandato ch'io stia tacita,
E faccia in guisa che né questo giovane
Né voi possiate saper che ci sieno.
BONIFAZIO:
Non er'io qui ne la via quando vennero?
Non temer ch'egli 'l sappia. Ma ch'indizio
Hai tu che sia come ci affermi?
CLAUDIO:
Ah misero!
Avrò cercato quel che rincrescevole
E noioso mi fia trovar.
STANNA:
Diròlovi.
Quando testé le donne in casa vennero,
Io mi trovai che tutta ero di polvere
Piena, e brutta di fumo e di caligine,
Ch'avea scopato il camino e la camera
Dove sono alloggiate, e, vergognandomi
D'esser così veduta, né potendomi
Ritrarre altrove, io corsi in la medesima
Stanza, dentro un scrittoio chiuso di tavole,
Per le qual, dove insieme si congiungono;
Si può guardar per le fissure, e vedesi
Et ode ciò che si fa ne la camera.
Ecco, stando quivi io, venir Eurialo,
E poi le donne, e l'ultim'era Accursio.
Sto cheta, e veggo Eurialo il capo volgere
Di qua e di là due volte e tre, e poi correre
A braccia aperte, e porle a quella giovene
Al collo, et ella a lui, e insieme aggiungersi
Le bocche, che parean quando la rondine
Imbecca i figli.
CLAUDIO:
E la madre vedevagli?
STANNA:
Come voi me. Ma questo è nulla.
CLAUDIO:
Abbiamone
Purtroppo, e non ne vogliàn or più intendere.
BONIFAZIO:
Sta' pur intenta, Stanna, e referiscine
Ciò che tu vedi.
STANNA:
Volete altro?
CLAUDIO:
Eurialo
È in casa?
STANNA:
E dove può star meglio?
BONIFAZIO:
Dettoci
Avevi ch'era ito in villa.
STANNA:
Pote essere
Ch'a Figarolo o di là da Garofalo
Or sia alla Pelosella.
CLAUDIO:
Per Dio, mandala
Via, ch'ella mi distrugge!
BONIFAZIO:
Or su, non perdere
Tempo, va'. Ben noi ti farèn il debito.
STANNA:
Sempre il debito è fatto.
BONIFAZIO:
Messer Claudio,
Poi che lo invito e 'l desinar d'Eurialo
È stato qual li monachetti giovani,
Che van digiuni in dormitor, si sognano,
Bisogna far com'al caldo le chiocciole;
Del nostro umore in casa nostra vivere.
Si che vo' ritornar, e far rimettere
Le starne nel schidone.
CLAUDIO:
Andate, e fatene
Quel che vi par, ch'io per me ho guasto il stomaco,
Né spero mai mai più di racconciarlomi.
BONIFAZIO:
Oh, che volete voi per questo affligervi?
Morir per questo? Quasi che le femine
Debban mancar al mondo! Sète giovane,
Ricco e bello; n'avrete in abondanzia
Ancora tal che vi verrà a fastidio.
CLAUDIO:
Ah lasso, io vo' morir!
BONIFAZIO:
Fate buon animo.
CLAUDIO:
Volete voi farmi un piacer? Lasciatemi
Qui sol.
BONIFAZIO:
Cotesto non ricerca il debito
De l'amor che vi porto.
CLAUDIO:
Non amandomi
Colei che sola al mondo amo, e mancandomi
Colui di fede di che sol fidavomi,
Non curo né d'amor né d'amicizia
Di persona del mondo. M'abbia in odio
Ognuno; ognuno ingannimi e tradiscami,
Ch'anch'io vo' odiar ognuno e mai non essere
Ad alcuno fedele, e donne et uomini,
Sia chi si vuol, menar tutti a una regola.
BONIFAZIO:
Questo non è parlar d'uom ch'abbia animo
Maschio.
CLAUDIO:
Non so s'io l'abbia maschio o femina;
So ben ch'io l'ho mal contento, e che d'essere
Meco gl'incresce, et è per far ogni opera
D'abbandonarmi presto, abbandonatomi
Avendo quella ch'a suo modo volgere
Lo potea.
BONIFAZIO:
Tal parole non convengono
A voi, ch'altrui mostrar la sapïenzia
Dovreste, essendo sempre ne le lettere
Versato e in tanti essempi de filosofi.
CLAUDIO:
Ne' libri, ohimè!, si leggono e si scrivono
Molte cose, ch'in fatti poi non reggono.
BONIFAZIO:
Venite almeno in casa, e disfogatevi
Come vi par, e non state qui in publico,
Come fanciul battuto, a versar lagrime:
Che s'al fin pur non volete ricevere
Da me conforto né consiglio, vogliovi
Esser compagno a lagrimar e piangere.
CLAUDIO:
Né in casa né in Ferrara, Bonifazio,
Mi vo' fermar, se non quanto si carichi
La roba mia, che sia condott'a Mantova,
Per drizzarla a Verona; e voglio ir sùbito
Per questo al porto, e poi cercar di bestia
Che via mi porti. Né più qui, né a Padova,
Né a Bologna, né in terr'altra di Studio
Mi vo' lasciar veder; né mai più leggere
Testi né chiose; e Baldi, Cini e Bartoli,
E gli altri libri stracciar tutti et ardere:
Che maledetto 'l di e l'ora possa essere
Ch'io venni al mondo, e la puttana balia
Che nel bagnuol non mi fece sommergere!
BONIFAZIO:
(Oh, egli è ben disperato! Pover giovane,
E pover tutti gli altri che si lasciano
Tôr da quest'assassino, ch'Amor chiamano,
La mente, il maggior ben che gli uomini abbiano!
Ma ecco torna la Stanna.) Trovastene
Pur?
STANNA:
N'ho trovati senza molto avolgermi;
E sono buoni, in fé di Dio. Toccategli.
BONIFAZIO:
Oh, come son ben sodi!
STANNA:
Non dicevo di
Questi, che non sono però da cuocere.
BONIFAZIO:
Da cuocer no, ma sì ben da goderceli
Vivi e sani.
STANNA:
Saria pasto da giovane,
E non da voi, ché vi potrebbon nuocere
Più che giovar.
BONIFAZIO:
Odi, Stanna.
STANNA:
Lasciateme
Ir, c'ho troppo da far senz'anco spendere
Il tempo in ciance.
BONIFAZIO:
E se fatti ci fossero?
STANNA:
Mi levarei di notte per attenderci.
ATTO TERZOSCENA IEurialo, Accursio EURIALO:
Chi si governa per cervel di femina
O di genti ch'a' lor pareri attendono,
Non può mai far cosa buona. Lasciatomi
Ho persuader a' suoi preghi e tuoi stimuli
Di celar lor venuta a messer Claudio;
Ecco ch'ora egli 'l sa, ché Bonifazio,
Che le vide venir in casa, dettoli
Ha 'l tutto, et anco più, che gli fa credere
Ch'Ippolita e quest'altra sien Flamminia
E la madre, com'egli crede e credono
Gli altri nostri di casa. Ora, credendolo
Altresì messer Claudio, e pur veggendomi
Tenerla occulta, debbe senza dubbio
Aver sospetto ch'io l'ami, e che postomi
Sia, in sua absenzia, in suo luogo; e dee volermene
Mal. E se perseverasse in questo credere,
Quella antica fra noi benivolenzia,
Dal canto suo, tornaria presto in odio.
Meglio sarebbe stato ch'a principio
Io l'avessi avertito come passano
Le cose.
ACCURSIO:
Or, quel ch'è già fatto è impossibile
Che non sia fatto. Veggiàn pur di mettere
L'unguento, prima che 'l male a procedere
Abbia più inanzi. È buon chiamarlo, e dirgli la
Cosa tutta.
EURIALO:
E menarlo in casa, e farglila
Vedere, e trarlo di questa ignoranzia.
Ma veggio là Piston che torna; vogliolo
Pur aspettar, e fargli, come merita,
Un buon ribuffo: si parte quest'asino
Di casa, sempremai che ci vede essere
Maggior bisogno d'uomini che servano.
SCENA IIPistone, Eurialo PISTONE:
S'io avessi tolto il punto de l'astrologo,
Io non avrei potuto il piede mettere
Fuor di casa in miglior otta per giungere
Più a tempo; e voglio creder ch'inspiratomi
Abbia Dio di far oggi, contra il solito
Mio, quella strada, che sei mesi passano
Ch'io non vi son più stato.
EURIALO:
(Quanto intendere
Posso, ha novelle costui che gli piacciono.)
PISTONE:
La mia è ben stata ventura grandissima,
Che nel maggior bisogno, e quando avevone
Minor speme, così veduto io l'abbia.
EURIALO:
(Costui danari o annello o cosa simile
Ha ritrovato. La vuo' bene intendere.)
C'hai tu, Piston, trovato? Ci voglio essere
A parte.
PISTONE:
Vostro padre, il qual...
EURIALO:
Dio, aiutami!
PISTONE:
È ritornato in dietro.
EURIALO:
Come?
PISTONE:
Dicemi
Che non era anco al Ponte, che sferratosi
Gli è 'l caval sotto, e lo facea rimettere
Al maliscalco, sapete, ch'è l'ultimo
Poi ce d'un pezzo si è passato l'Agnolo.
EURIALO:
Pur andarà?
PISTONE:
Non. Gli ho detto io che giunteci
Son queste donne a casa.
EURIALO:
Ah temerario,
Indiscreto, gaglioffo! Or non avevoti
Commesso espressamente e minacciatoti
Che non ne fêssi parola?
PISTONE:
Vietastemi
Ch'io nol dicessi a strani, ma in quel novero
Non è da por vostro padre.
EURIALO:
Vietavoti,
Dunque, ch'al Brusco o ch'a Biagiuol da l'Abaco
Tu nol dicessi? Ma dove, brutto asino,
T'ho parlato io de strani o di domestici?
PISTONE:
Mi credea di far bene, e che molt'obligo
Voi me n'avessi aver, perc'ho fatt'opera
Che restarà.
EURIALO:
Ribaldo! Che ti vengano
Cento cancari! Dunque ha diferita la
Sua andata?
PISTONE:
Sì.
EURIALO:
Non si part'oggi?
PISTONE:
Al credere
Mio, né doman ancor, né fin ch'a Padova
Non vadan elle; far lor si delibera
Carezze e onor, né perdonar al spendere.
EURIALO:
Ma egli ora dove è?
PISTONE:
Tornammo a rendere
La bestia. Io gli trassi i stivali e messigli
Le pianelle; egli da quella via andossene
In Piazza a far provision del vivere,
Et a me disse: — Torna a casa, e portami
Il canestro e la sporta grande, e vientene
Al Castel, ch'io sarò fra i pizzicagnoli. —
EURIALO:
Dunque, fa' come t'ha detto, che rompere
Ti possi 'l collo!
PISTONE:
Io mel ruppi il medesimo
Giorno ch'io venni a star con voi.
EURIALO:
Se prendere
Mi fai due braccia d'un querciuol...
PISTONE:
Che diavolo!
Non ne saprò uscir io senza cacciarmine
Voi col baston, come i cani si cacciano?
EURIALO:
(Non è questo poltron se non superbia.
Per Dio, per Dio! Deh, che farò? Deh, misero
Me, poi che questo vecchio vien a rompermi
Tanto piacer, anzi, tutto a voltarlomi
In pena e in doglia! A lui sarà difficile
Persuader, come a Piston persuasolo
Abbiàn, che queste sian di messer Lazzaro
La moglie e la figliuola; et accorgendosi
Di questa fraude, e me e le donne sùbito
Caccia di casa, con mio vituperio.
Di me poco mi cale e poco curone;
Ma de le donne tanto che, pensandovi
Pur solamente, mi sento distruggere.
Or ecco 'l consiglier che, persuadendomi
Di torle in casa contra quel ch'in animo
Avea, m'ha fatto in quest'error trascorrere.)
SCENA IIIEurialo, Accursio, Pistone EURIALO:
Hai tu udito Pistone?
ACCURSIO:
Così mutolo
Oggi foss'egli stato, che parlatone
A voi né ad altri avesse!
EURIALO:
Ve' a che termine
Noi siàn condotti per tua colpa!
ACCURSIO:
Fatemi
Indovin, ch'io farò voi ricco. Avrestelo
Pensato voi?
EURIALO:
Gli è qui il vecchio.
ACCURSIO:
Sia in nomine
Domini. Che sarà però? Voletevi
Porre affanno per questo?
EURIALO:
E di che porlomi
Debb'io, che monti più?
ACCURSIO:
Monta più ch'abita
A piè de l'alpi, il falcon monta e l'aquila;
Monta altrimente 'l gallo e i frati 'n pergamo,
E molte volte altrove, pur che possano.
EURIALO:
Che monta e monta! Già tanto non montano
Le ciance tue, che montino un pel d'asino.
Mio patre è in questa terra.
ACCURSIO:
(In terra foss'egli
Pur da dover, com'è suo patre e l'avolo!)
Che volete voi dir per questo?
EURIALO:
Voglioti
Dir che tu non ti pensi fargli credere,
Com'hai fatto a Piston.
ACCURSIO:
Se sarà incredulo,
Vorrò che se n'andiàn a San Domenico.
EURIALO:
Che vi faremo?
ACCURSIO:
Gli faren procedere
Contra, come a infedele e come a eretico,
Dal patre inquisitor.
EURIALO:
Va', tu m'infracidi
Con queste tue sciocchezze. Per Dio, lasciale
Da parte e attendi a questo.
ACCURSIO:
Per Dio, datevi
Buon tempo, e la fatica e tutto 'l carico
Lasciate a me, ch'io tolgo a mio pericolo
E spese quanto mal ci può mai nascere.
Io voglio farmi a vostro patre credere,
Più che credesse a frate mai pinzochera.
Faren venir questa sera medesima
Un vecchio qui a caval, che parrà giungere
Da Pavia allora allora, e diremo essere
Lui quel fattor che dee condurle a Padova;
Che già abbiàn detto in casa ch'elle aspettano.
EURIALO:
E chi avren noi che faccia quest'ufficio
E non sia connosciuto?
ACCURSIO:
Per Dio, mancano
la questa terra i barattieri, voglili
O forastieri o de la terra propria?
Poi, domatina all'alba, sarà in ordine
Una carretta che le lievi, e portile
Poco lontano, con vista ch'ir vogliono
Al lor camin; ma la porta non passino.
Trovaremo a bell'agio oggi una camera
Per quattro o cinque giorni, dove ascondere,
Fin che sia il vecchio partito, si possano.
EURIALO:
Ma ecco che Piston vien fuor.
ACCURSIO:
Portatoci
Foss'egli co' piè inanzi! Deh, mandatemi
Con essolui, ch'io vuo' talmente imprimere
La cosa in capo al vecchio, che possibile
Non fia che possa, se non così, credere.
E voi tornate in casa, et avisate le
Donne e ammaestrate come debbono
E dire e fare; e mostrate il pericolo
In che elle sono, se non si governano
Bene.
EURIALO:
Io 'l farò — Piston voglio ch'Accursio
Venghi teco. Ma tu non odi? Guardati
Di non gli dir che di ciò corocciatomi
Io sia, ma che più tosto avuto io n'abbia
Piacer e gaudio; se non ti certifico
Ch'io ti farò del tuo error riconnoscere.
PISTONE:
Non son stato a quest'ora a riconnoscermi
Et a saper che quest'e peggio merita
Chi cerca altrui servir, e può star libero.
ACCURSIO:
Deh, lascial dir come vuol; non ti mettere
A garrir seco: gli è padron, gli è giovane,
Gli ha buon tempo.
EURIALO:
(Io vuo' prima a messer Claudio
Parlar, ch'io torni in casa.)
ACCURSIO:
È intrato in còlera
Col padre alquanto, e pur dianzi dicevami,
Da lui a me: — Che te ne par, Accursio?
Quasi alloggiar due donne, non essendoci
Lui, non sapessi anch'io! Questo è 'l bel credito
Che dar mi vuole! Ognun dirà, sapendosi
Ch'egli torni per questo, che mi reputa
Un uom ben grosso e ben privo d'industria...
EURIALO:
(Meglio è chiamarlo, e far che con noi disini...)
ACCURSIO:
...Poi che non si è fidato di commettere
Alla mia discrezion cosa sì picciola. —
EURIALO:
(...E ch'egli sganni se stesso, veggendole.)
ACCURSIO:
Egli avrebbe voluto questa gloria.
Tutta per sé: che referito avessero
Poi queste donne a casa a messer Lazzaro
Sì com'egli improviso, non essendoci
Suo patre... Tu m'intendi. Venir sogliono
Simil pensieri in li animi dei giovani.
PISTONE:
E che colpa n'ho io, che s'abbia a movere
Incontra me tant'aspramente?
ACCURSIO:
Lasciala.
(Ma chi è colui che vien in qua? Dio, aiutaci!
Mi par un servitor.)
PISTONE:
C'hai tu, che tutto ti
Sei cambiato nel viso?
ACCURSIO:
(È 'l Riccio.) Vatene,
Piston, pur senza me. Mi bisogna essere
Un poco a casa.
PISTONE:
A Dio.
ACCURSIO:
Gli è desso. Debbelo
Aver mandato dietro a queste femine
La Contessa. Padrone, olà, volgetevi
A me. Vedete colui? Connoscetelo
Voi?
EURIALO:
Sì, per Dio! Gli è 'l Riccio! Ohimè, ohimè misero!
Gli è desso. Ora le cose in più pericolo
E in più scompiglio che mai s'aviluppano.
SCENA IVRiccio staffiere, Accursio, Eurialo RICCIO:
(So ch'io non erro; questa è senza dubbio
La strada. Ma la casa dov'egli abita
Io non so già qual sia...)
ACCURSIO:
Noi cerca, uditelo.
EURIALO:
L'odo, e m'incresce udir.
RICCIO:
(...se questi giovani
Non me la mostran. Ma quelli mi paiono
Ch'io cerco; a punto son dessi.) A Dio, giovani
Da bene; Dio vi guardi.
ACCURSIO:
Da ben guardi te
Dio pure e noi da male.
RICCIO:
Tu, al contrario
De l'intenzion, il mio parlar interpreti.
Ma dimmi un poco, Accursio, ch'a te volgere
Mi voglio prima...
ACCURSIO:
A me già non ti volgere;
Volgeti a questi umanisti che cercano
Medaglie, e di rovesci si dilettano.
RICCIO:
Pon da parte le ciance. Ti par ch'opera
Lodevole sia stata il far ingiuria
Alla padrona mia?
ACCURSIO:
Dove le ho ingiuria
Fatto io?
RICCIO:
Non lo sai tu? Torle una giovane
Di casa a questo modo, che da picciola
S'avea allevata, non ti pare ingiuria?
Tu l'hai fatta fuggire; tu menatala
Hai qui teco.
ACCURSIO:
Io?
RICCIO:
Tu sì. Deh, non ti fingere
Così maraviglioso, c'ho chiarissima
Informazion come le cose passano.
So come tuo padron, messer Eurialo,
Che vuo' che m'oda...
EURIALO:
Riccio, non mi mettere
In questa trama.
RICCIO:
...ti lasciò, partendosi
Lui, per questo in Pavia.
EURIALO:
Quando colpevole
Ben ogni altro ne fosse, innocentissimo
Ne son io, e credo ch'innocente Accursio
Ne sia non meno.
RICCIO:
A voi vorrò rispondere
Più ad agio. Or parlo con costui. So, dicoti,
Come in Pavia ti lasciò questo giovane
Perché tu fêssi, uomo da ben, quest'opera;
E che prima di te si partì Ippolita
Con la ruffiana Veronese, e vennero
Ad aspettarti a Piacenza; e levastile
Tu quindi, et in Ferrara tu conduttele
Hai.
EURIALO:
Se tu così ben come epiloghi
Facessi il resto, orator saresti ottimo.
ACCURSIO:
Non si trovarà mai...
RICCIO:
Non puoi negarlomi;
Ch'io son stato alla nave che condottivi,
Ha in questa terra, et il nocchier narratomi
Ha 'l tutto.
ACCURSIO:
È ver ch'a Piacenza ci entrarono
Due donne in nave, una vecchia e una giovane,
Che son fin qui meco venute, e dicono
Che ritrovar alcun legno vorrebbono
Ch'andasse verso Ancona, che disegnano
Di farsi poi condurre a Roma. Rendite
Certo che non son quelle che tu imagini.
EURIALO:
Per Dio, 'l nocchier dicea di queste! Toltele
Tu in cambio hai di quest'altre.
ACCURSIO:
Non pote essere
Altrimente.
RICCIO:
Fingetela e acconciatela
Come meglio vi pare: a me sta credere
Quel ch'io ne voglio. Ma, messer Eurialo,
Siate avvertito c'ho portate lettere
Al Duca et a molti altri gentiluomini,
Che s'in Ferrara saran queste femine,
Non avrete possanza di nasconderle.
ACCURSIO:
Non sono quelle che ti pensi. Vengono
Queste due da Turin: se 'l ver mi dicono,
Sono madre e figliuola. Già partitesi
Credo sian, ch'aver fretta dimostravano
Di ritrovarsi in Roma, dove intendono
Che 'l sangue de li Apostoli e de' Martiri
È molto dolce, e a lor spese è un bel vivere.
RICCIO:
Non mi tôr con tue ciance di proposito
Queste ch'io cerco son qui, e troverannosi,
Credo, con vostro danno et ignominia.
E se non fosse perché messer Lazzaro
Mi ha pregato ch'io non dia queste lettere
Fin ch'egli non sia qui...
EURIALO:
Vien messer Lazzaro
In questa terra?
RICCIO:
...a quest' ora a pentirvene
Stati, per Dio, non sareste!
EURIALO:
Rispondimi:
Vien messer Lazzar?
RICCIO:
Non può star a giungere
Molto.
EURIALO:
(Stiàn freschi!) Ove l'hai visto?
RICCIO:
A Sermide.
ACCURSIO:
Io 'l lasciai pur, ch'in un giorno medesimo
Da Pavia ci partimmo, ch'aveva animo
Di non venir a Ferrara.
RICCIO:
Si mutano
Facilmente le volontà degli uomini.
EURIALO:
(Mira se la Fortuna mi perseguita!)
RICCIO:
Ben ir volea per l'altro Po, ma, avendoli
Detta la causa del venir mio, fecilo
Mutar d'opinion, ché montò subito
In un burchiello, egli e la moglie, insieme la
Figliuola e, credo, una fantesca...
EURIALO:
(Ah misero
Me, destinato alle disgrazie!)
RICCIO:
...e manda li
Altri, col burchio di sue robe carico,
A Francolin, dove vuol che l'aspettino.
ACCURSIO:
Messer Lazzar vien qui?
RICCIO:
Vuoi ch'io tel replichi
Più? Dicovi che viene, e dovrebb'essere
Giunto già un'ora, se 'l vento contrario
Non gli fosse tutt'oggi stato. Dissemi
Voler venir, per far che senza strepito
Tra voi e me le cose s'adattassino.
ACCURSIO:
S'adattaran facilmente, chiarendoti
Che di cotesto noi non siàn colpevoli.
RICCIO:
Pensa pur altro, e credi che pochissimo
Meco il dissimular vi giovi e 'l fingere.
Ma vuo' star cheto fia che messer Lazzaro
Sia venuto, e ch'io vegga che rimedio
Ci vuol pigliare. Io non ero per dirvene
Parola prima; ma da lui partendomi,
Che smontai in terra per più tosto giungere,
Mi pregò ch'io venissi a farvi intendere,
Da sua parte, che vuol questa sera essere
Con essovoi. Vi do da pensar termine
Tutt'oggi. A Dio.
ACCURSIO:
Va', alla buon'ora. Pongati
Dio 'l vero in mente e ti faccia connoscere
Quanto a torto ci dài questa calunnia.
SCENA VEurialo, Accursio EURIALO:
Or siàn usciti pur fuor di pericolo
ACCURSIO:
Usciti? E come?
EURIALO:
Non c'è più pericolo.
Pericolo si chiama ove sta l'animo,
Fra speranza e timor, sospeso in dubbio
Ma questo è manifesto mal, certissimo
Danno; quest'è rovina inevitabile.
Ohimè, io son morto.
ACCURSIO:
I morti non favellano...
EURIALO:
Aiutami, per Dio.
ACCURSIO:
...né dar rimedio
Né aiuto si può a' morti.
EURIALO:
Or apparecchiami
Dunque il sepolcro, e prima in terra ascondimi
Che qui giunga mio padre e messer Lazzaro,
Prima ch'io vegga, con mio tanto carico,
Con mio perpetuo scorno e vituperio,
Che cacciato mi sia di casa Ippolita,
A guisa d'una fante infame e publica.
ACCURSIO:
Se vorrete lasciar voi stesso perdere
Vilmente, siate certo ch'anco lppolita
Voi perderete; ma se per difendervi
Porrete e piedi e mano e senno in opera,
Salvarete amendue.
EURIALO:
C'ho a far? Insegnami,
Ch'io per me mi ritrovo in modo attonito,
Che non so dove io sia.
ACCURSIO:
Mi par che sùbito
Si dica a messer Claudio e a Bonifazio
Il tutto, e che si preghino che vogliano
Che queste donne in la lor casa passino.
Levate ch'elle siano, ogni pericolo
Sarà levato. Venga messer Lazzaro
Quando vuol, torni 'l vecchio a beneplacito
Suo poi: non ci sarà più alcun pericolo.
Avertiremo la Stanna. Lasciate la
Cura a me di parlar seco e instruerla
Come ha a dir. Se Piston detto il contrario
Avrà, che già sien venute, faremolo.
Parer bugiardo. Egli so che vedutele
Non ha. Diremo che dato ad intendere
Così gli avamo, acciò fosse solecito
E diligente più che non è solito.
EURIALO:
Mi piace 'l tuo parer. Or presto facciasi
L'effetto. Torna tu in casa et avisale.
Io parlarò a questi altri.
ACCURSIO:
Ma vedetelo!
EURIALO:
Mio padre? Ohimè, gli è desso! Avremo in aria
Fatto il castel! Non possiàn più difenderci,
Ch'al suo apparir tutt'i ripari cascano.
Accursio, io son ben morto.
ACCURSIO:
Gli è meglio essere
Ben morto che mal vivo. Or raccoglietevi
In voi. Ben sapremo anco a questo prendere
Partito. Andate in casa et avisate le
Donne. Anzi sarà meglio far che chiudano
Uscio e finestre, e che stian ne la camera
Chete; e che voi dichiate ch'elle dormono,
Ché stanotte han vegghiato. Che può nuocere
Aver tempo a pensar, prima che vistole
Abbia il vecchio? Io anderò qui a messer Claudio
Voglio parlar con lui, ché già per l'animo
Mi va un pensiero. Andate, e riposatevi
Sopra di me e dormite, come dicono,
Con gli occhi miei, quieto e sicurissimo.
SCENA VIFrate predicatore, Bartolo FRATE:
Voi potete veder la bolla e leggere
Le facultadi mie che sono amplissime,
E come, senza che pigliate, Bartolo,
Questo peregrinaggio, io possa assolvere
E commutar gli voti. E maravigliomi
Ch'essendo, com'io son, vostr'amicissimo,
Non mi abbiate richiesto; perché, dandomi
Quel solamente che potreste spendere
Voi col famiglio nel viaggio, assolvere
Vi posso e farvi schifar un grandissimo
Disconcio, all'età vostra incomportabile,
Oltra diversi infiniti pericoli
Che ponno a chi va per camino occorrere.
BARTOLO:
Se ben agli altri, padre venerabile,
Dico ch'io vo per voto, nihilominus
Dir voglio il ver a voi; che la fiducia
C'ho in vostra carità, per l'odor ottimo
Ch'esce de' santi costumi e del vivere
Vostro tutto essemplar, mi par richiedere
Ch'ogni intrinseco mio con voi communichi;
E tanto più che darmi in ciò qualch'utile
Consiglio forse potrete, e quest'obligo
D'ire a torno levarmi, s'alcun abile
Modo ci fia. Ma quel ch'io dico, dicolo
In confessione.
FRATE:
E in confessione tolgolo.
BARTOLO:
Altro non è ch'el sappia, eccettuandone
Solo il nostro piovan, che la quaresima
Mi confessa; ma non mi sa decidere
Questo caso, che, come voi, teologo
Non è: sa un poco di ragion canonica.
FRATE:
Io v'offerisco, quanto si può estendere
Il saper mio, di darvi quel medesimo
Consiglio che per me mi torrei. Ditemi
Il caso vostro.
BARTOLO:
Io vel dirò. Già passano
Venti anni che in Milan stavo al stipendio
Del Duca, et in quel tempo in la medesima
Corte similmente era un altro giovane,
Pur ferrarese, e insieme un'amicizia
Sì stretta avamo, che parea che fossimo
In dui corpi un volere, un cor, un'anima.
Tenevasi costui quivi una femina,
Di ch'ebbe una figliuola in quelli prossimi
Di che le cose di Milan si volsero:
Che 'l Moro abbandonò il stato et andossene
Ne la Magna. Or, fra gli altri gentiluomini
Che lo seguir, Gentile et io seguimolo,
Che Gentil avea nome questo giovane.
Giunto in la Magna, s'infermò gravissima–
mente Gentile e morì; né trovandosi
Altro amico o parente sì benivolo
Come gli ero io, mi lasciò erede in l'ultima
Sua volontade, e universal; ma fecemi
Prometter che, qual volta il tornar libero
Fosse a Milan, maritarei la femina
Sua con dote e partito convenevole,
E che de la fanciulla la medesima
Cura mi piglierei che del mio Eurialo,
Nutrendola, allevandola et al debito
Tempo, secondo il grado, maritandola.
A questa promission né testimonii
Vòlse chiamar, né privata né publica
Scrittura alcuna farne, ma rimettersi
A me del tutto.
FRATE:
La promessa semplice
D'un amico fedel purtroppo è valida
Senza giurar o testimonii o rogiti.
BARTOLO:
Tornò il Duca in Milan, come debb'esservi
Noto, e poco vi ste', che li medesimi
Che vel menâr, poi lo tradiro e presero.
Tornal con lui io ancora, e trovai ch'erano
Salvi tutti li miei, ma che la femina
Di Gentil se n'era ita: che, sentendolo
Morto, s'avea trovato altro ricapito:
Era piaciuta a un signor che dicevano
Esser napolitano.
FRATE:
È verisimile
Che signor fosse, poi ch'era da Napoli,
Perciò c'ho inteso che ve n'è più copia
Che a Ferrara de conti; e credo ch'abbiano
Come questi contato, quei dominio.
BARTOLO:
Questo napolitan, signor o suddito
Che fosse, se l'avea tolta, e condottala
Seco con la figliuola, e masserizia
Parte portando, parte fatto vendere,
La casa vuota lasciata m'aveano.
Trovand'io questo, differi' a più commodo
Tempo l'ir a cercarne, e tornai sùbito
A Ferrara, ove il testamento autentico
Produssi, e beni mobili et immobili
Che furon di Gentil, senz'altro ostacolo
Ottenni, e mi fei ricco, ch'ero povero
Prima. Ma tuttavia mi par ch'un stimolo
Mi punga il cor, e non possa levarlomi,
Di non aver trovato da principio
Queste donne, o almen fattane la debita
Diligenzia. Gli è ver ch'io ho avuto in animo
Sempre di farlo, ma pur differendolo
Son d'anno in anno venuto, e condottomi
Fin qui. Or, insomma, il mio piovano assolvere
Non mi vuol più, s'io stesso non vo a Napoli
A trovar il signor che queste femine
Levò, e saper da lui dove si trovino,
O seco o pur con altri; e, ritrovandole,
Far quel che già molti anni era mio debito.
FRATE:
Questa fatica volontier, potendola
Schifar, voi schifareste?
BARTOLO:
Chi ne dubita?
FRATE:
Ben si potrà commutar in qualch'opera
Pia. Non si trova al mondo sì fort'obligo
Che non si possa sciôr con l'elemosina.
BARTOLO:
Andiamo in casa e più ad agio parliamone.
ATTO QUARTOSCENA IBonifazio, Eurialo BONIFAZIO:
Va' ratto, che sii là prima che giungano,
E ch'altra guida piglino; e ricordati
Di menarli di qua, sì che non passino
Da l'uscio vostro. Io chiamerò qui Eurialo
Di fuor, e avertirollo de l'astuzia
Ch'abbiàn tu et io composta per soccorrerlo.
(Io vo' a ogni modo aiutar questo giovane,
E dir diece bugie perché ad incorrere
Non abbia con suo patre in rissa e in scandalo:
E così ancor quest'altro mio, ch'all'ultima
Disperazione è condotto da un credere
Falso e da gelosia ch'a torto il stimola.
Né mi vergognarò d'ordire e tessere
Fallace e giunti, e far ciò che son soliti
Gli astuti servi in l'antiche comedie;
Che veramente l'aiutar un povero
Innamorato non mi par ufficio
Servil, ma di gentil qual si voglia animo.
Non so perché la Chiesa non l'annoveri
Per l'ottav'opra di misericordia.
Ma ecco Eurialo a tempo.)
EURIALO:
Bonifazio,
Havvi parlato Accursio?
BONIFAZIO:
Sì.
EURIALO:
E narratovi
Ov'io mi trovo per voler attendere
Al suo consiglio?
BONIFAZIO:
Ogni cosa per ordine
M'ha detto.
EURIALO:
Che vi par?
BONIFAZIO:
Fu temerario
Consiglio il suo, ogni modo; pur rimedio
Ci prenderemo, secondo che prendere
Si può in tal caso, e spero che succedere
Debbia.
EURIALO:
V'avrei speranza anch'io, se spingere
Io potessi di casa, pur il spazio
D'un quarto d'ora, mio padre solummodo,
Tanto che queste femine passassino
In casa vostra. Ma 'l frate che predica.
In Domo è seco, e buon pezzo tenutolo
Ha in parole, e son posti ad una tavola
Ch'a punto è al dirimpetto de la camera,
In che serrate queste donne fingono
Di dormir.
BONIFAZIO:
Non v'accade di nasconderle.
Lasciate pur
EURIALO:
Non so dove mi volgere,
Se non a voi. Così a voi, da principio
Mi foss'io volto, ché non saria a' termini
Ove mi trovo con tanto pericolo:
Che mi par tuttavia che messer Lazzaro,
La moglie e la figliuola vegga giungere.
Io me vi raccomando.
BONIFAZIO:
Avete dubbio
Che noi vi abbandoniàn, messer Eurialo?
EURIALO:
Per bontà e cortesia vostra, aiutatemi,
Ch'in più travaglio, in più affanno, in più angustia
Mi trovo in che mai si trovasse misero.
BONIFAZIO:
Io non vi mancherò, fate buon animo.
EURIALO:
Levatelo di casa un poco, e ditegli
Che vi bisogna in Piazza la sua opera.
BONIFAZIO:
E di ch'opra ho bisogno io?
EURIALO:
Fingetela:
Che qualche vostra causa ai segretarii
O al Podestà raccomandi.
BONIFAZIO:
Io non litigo.
EURIALO:
Di qualch'amico vostro imaginatevi
Qualche facenda.
BONIFAZIO:
Quest'è troppo incommoda
Ora di tuor di casa un suo par: debbono
Esser per tutto serrati gli ufficii,
E solo i cani restati di guardia
De la Piazza. Ma senza però moverlo
Di casa, o che le donne di qua passino,
Ben sarà luogo ove quest'altre alloggino
Con lor commoditade, senza strepito.
EURIALO:
Come? Volete voi che messer Lazzaro
Con le sue venga, e che queste altre femine
Ci trovi in casa?
BONIFAZIO:
Non cotesto. Statime
Un poco a udir. Mandat'ho inanzi Accursio
Al porto, che vi stia tanto che giungano,
E li raccoglia allegramente, e menili
Qui in casa mia. Io sarò qui a ricevergli,
E voi meco, e diremo ch'io sia Bartolo.
EURIALO:
Che voi siate mio padre?
BONIFAZIO:
Sì; e confannosi
L'etadi, che sarà ben verisimile.
Io so che vostro padre e messer Lazzaro
Non si son mai veduti, e sol per lettere
E relazione vostra si connoscono;
Si che alloggiarlo meco e fargli credere
Che con Bartolo alloggi sarà facile.
Che ve ne par?
EURIALO:
Est generis promiscui:
Esser può ben e mal.
BONIFAZIO:
Non c'è pericolo.
Voi verso me farete i convenevoli
Di figliuol verso il padre. Darà Accursio
Alla fizion aiuto. Onoraremogli
Non meno in questa casa che se fossino
In casa vostra.
EURIALO:
Il veder messer Claudio
Non piacerà al dottor.
BONIFAZIO:
Stia messer Claudio
Occulto intanto; poi, come succedere
Si vedranno le cose, fia in arbitrio
Nostro pigliar novo partito o metterlo
Da parte. Abbiamo commoda et orrevole
La casa, et assai ben sono le camere
Apparate. Condur mi basta l'animo
La cosa in guisa che senza pericolo
Saper da poi la potrà messer Lazzaro,
E sarà a' desir nostri favorevole;
Ché, com'io intendo, è gentil e piacevole.
E spero tra quest'altro e lui concludere
In modo ancora, che prima che partano
Di casa mia farò un suocero e un genero.
EURIALO:
Io non so che mi dica: ponno occorrere
Molti disturbi che il disegno guastino.
BONIFAZIO:
E che volete ch'occorra? Proveggasi
Che non vi venga la ruina a opprimere.
Non vedete voi come vi si approssima?
EURIALO:
Io la veggo purtroppo e, non essendoci
Miglior riparo, è forza a quest'apprendermi;
E sia come si voglia, o forte o debole.
BONIFAZIO:
Gli è forte più che marmo: riposatevi
Pur sopra lui. Ma mi parria a proposito
Che voi ancora andassi a Po, et al giungere
Lor, voi gli raccogliessi e accompagnassili
Qui dentro.
EURIALO:
Sto in gran dubbio che, se restano
Senza me in casa quest'altre, non facciano
O dican qualche cosa onde si scoprano.
BONIFAZIO:
E che ponno elle o dir o fare, avendole
Voi già avisate? Ma vedete Accursio
Ch'a noi torna.
EURIALO:
Ohimè, quest'è messer Lazzaro,
La moglie e tutta la brigata! Domine,
Aiutami, ch'io tremo!
BONIFAZIO:
Ah pusilanime!
Voi siete divenuto così pallido?
Venite, andiàn lor contra; ma veniteci
Con altro volto; cotesto più idoneo
Saria dar lor combiato che riceverli.
EURIALO:
Oh, se mio patre, ohimè, venisse a mettere
In questo tempo il capo fuor!
BONIFAZIO:
Che diavolo
Potria saper che fossin, non avendoli
Mai più veduti?
EURIALO:
Facciàn noi pur ch'entrino.
SCENA IIMesser Lazzaro, Bonifazio MESSER LAZZARO:
(Io veggo a noi venir messer Eurialo.
Quel che gli è inanzi suo patre dev'essere.)
BONIFAZIO:
Ben venga messer Lazzaro, e ben vengano
Queste madonne.
MESSER LAZZARO:
E voi, che messer Bartolo
Credo siate...
BONIFAZIO:
Son Bartolo, a servizio
Vostro.
MESSER LAZZARO:
...siate per cento e cento milia
Volte il ben ritrovato. Oh mio discepolo!
Voi mi parete, messer Bartol, giovane
Come vostro figliuol. Si potria credere
Che vi fosse fratello.
BONIFAZIO:
Il non mi mettere
Molti affanni e fuggir tutti li incommodi
Mi mantien fresco. Andiamo in casa: debbono
Queste donne aver freddo. E come penetra
Quest'aria il capo! Purtroppo patitala
Hanno stamane in nave! Corri, Accursio,
Di sopra e fa un buon fuoco. Messer Lazzaro,
Venite dentro, e comminciate a prendere
Possession de la casa, che i meriti
Vostri fan vostra con l'aver, con gli uomini,
Con ciò che siamo o che siàn mai per essere.
MESSER LAZZARO:
La vostra umanitade, messer Bartolo...
BONIFAZIO:
Deh, non moltiplichiamo in cerimonie:
O poniànle da parte o diferiamole
A far appresso il foco ne la camera.
SCENA IIIAccursio ACCURSIO:
A punto siàn come gli augei che cascano
Ne la rete, che quanto si dibattono
Più per uscirne, tanto più s'intricano.
Noi procacciàn rimedio a un male, e nascere
Ne facciàn tre peggiori e più difficili
Da risanar; né del primo pericolo
Usciàn però. Se l'astuzie succedono,
Più per necessità che per giudicio
Da noi trovate, debbiamo a miracolo
Attribuir, più tosto che a prudenzia.
Ma che possiàn noi far altro, assaltandoci
Da tanti lati Fortuna contraria?
L'arco è tirato fin dov'è possibile,
E non possibil anco, e sta per rompersi,
Più che per saettar al segno. Io simulo
Speme e baldanza, e studio di far animo
Al giovene padron, ma non men timido
Che 'l suo mi sento il cor nel petto battere;
E non so come una cosa che timida–
mente si faccia possa ben succedere.
Ma poi ch'in questo labirinto postici
Siamo, et io son stato cagion di mettervi
Me e gli altri, è mio principalmente debito
Di non mi sbigottir o perder d'animo,
Quando ben tutti gli altri lo perdessero.
Bisogna che li occhi apra, e ben consideri
Quei mal ch'avvenir ponno, e li rimedii
Tutti apparecchi lor, prima ch'avengano.
La prima cosa, trovar messer Claudio
Bisogna, et avertirlo del pericolo
In che noi siamo, e com'abbiàn, sforzandoci
bisogno, alloggiato messer Lazzaro
In questa casa; acciò che, non sapendolo,
Non venisse, e le cose in pid disordine
Mettesse di quell'anco in che si trovano.
Ma meglio è ch'io l'aspetti sin che capiti
Qui per tornar a casa: ché, volendolo
Cercar né sapendo ove, potrei facile–
mente non lo trovar. Ma ecco ch'escono
Il mio vecchio padrone e questo ipocrita
Gaglioffo che con nostro molto incommodo
L'ha tenut'oggi a ciance.
SCENA IVFrate, Bartolo, Accursio FRATE:
Portaròlavi,
E ve la lasciarò veder e leggere.
Siate pur certo che la bolla è amplissima,
E che de tutt'i casi, componendovi
Meco, vi posso interamente assolvere,
Non meno che potria 'l papa medesimo.
BARTOLO:
Vi credo; nondimeno, per discarico
De la mia conscïenza, la desidero
Vedere, e far anco vedere e leggere
Al mio parrochiano.
FRATE:
Sit in nomine
Domini. Portaròlavi; mostratela
A chi vi pare. Intanto, messer, Domene–
dio sia con voi.
BARTOLO:
E con voi, padre, simile–
mente. Ma ecco Accursio.
|
|
| |